Il 2 aprile 2019 il Parlamento ha approvato in via definitiva la modifica del Titolo I, Libro VI, del Codice di procedura penale, che disciplina il giudizio abbreviato, introducendo il divieto di celebrare questo rito accelerato e premiale quando si procede per reati che prevedono la pena dell’ergastolo.
Cioè, se il delitto contestato prevede la pena dell’ergastolo, non sarà più possibile optare per quel particolare rito che consentiva all’Amministrazione Giudiziaria di pronunciarsi in tempi rapidi e sulla base dei soli atti delle indagini preliminari (risparmiando molto tempo e molto denaro, necessari per il dibattimento), ed all’imputato di avere una decisione in tempi pressoché ragionevoli, rinunciando alle ampie garanzie dibattimentali a fronte dello sconto di un terzo secco della pena.
Ed occorre precisare che, in caso di abbreviato per delitti puniti con l’ergastolo, questa pena si tramutava in 30 anni di reclusione.
Pertanto, quando si procede per reati che prevedono la pena dell’ergastolo, l’imputato non potrà più chiedere di essere ammesso al detto rito abbreviato. Parimenti, qualora nel corso del rito abbreviato – già ammesso per delitti puniti meno afflittivamente – si proceda alla riqualificazione del fatto in uno che prevede invece l’ergastolo, il Giudice dovrà revocare l’ammissione a tale rito speciale e fissare l’udienza preliminare.
Tale provvedimento appare collocarsi nell’ambito della continua campagna elettorale in cui vive il nostro Paese, campagna elettorale che ormai abitualmente si incentra su sedicenti “riforme della giustizia” ed in particolare con deprecabili interventi sul sistema penale e processuale.
Non bastavano le recenti riforme che hanno aumentato le pene per svariati reati, né era sufficiente l’incivile soppressione – di fatto – della prescrizione quale causa estintiva del reato, una volta che sia intervenuta la sentenza di primo grado (seppure tutti gli studi delle associazioni forensi e le statistiche del Ministero della Giustizia prospettino un limitato impatto concreto, dato che la prescrizione matura per la maggior parte dei casi nella fase delle indagini preliminari): occorreva anche intervenire sul rito abbreviato.
Va premesso che la pena dell’ergastolo è prevista dal nostro Codice per una serie tutto sommato limitata di delitti, ed in particolare agli artt. 242, 243, 244, 247, 253, 255, 256, 257, 258, 261, 262, 265 (tutti delitti concernenti la sicurezza dello stato e la causazione di guerre); 276, 280, 284, 285, 286, 287, 289-bis, 295 (delitti di terrorismo e di eversione dello Stato); 422 (strage), 438 (epidemia), 439 (avvelenamento di acque).
Tuttavia, ben più frequente applicazione trovano le ipotesi di cui agli artt. 576 e 577 (aggravanti dell’omicidio); 605 (sequestro di persona), 613-bis (tortura); 630 (sequestro di persona a scopo di estorsione).
Tale opzione legislativa si pone in stridente contrasto con i principi e gli orientamenti di tutti i principali Paesi occidentali ed europei in particolare, che prevedono pene anche molto lunghe – superiori ai 30 anni previsti dal nostro codice penale – ma mai il carcere a vita.
Infatti, occorre tenere sempre presente – anche nel legiferare – che fortunatamente abbiamo una Costituzione. Costituzione che prevede, all’art. 27, che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato.
Pertanto, il Legislatore deve sempre razionalmente bilanciare le esigenze repressive e retributive della pena, con quelle di rieducazione e reinserimento sociale del reo.
Sul punto, è opportuno richiamare la sentenza della Corte Costituzionale, n. 149/2018, che ha dichiarato incostituzionale la norma che precludeva alcuni benefici penitenziari agli ergastolani condannati per sequestro di persona a scopo di estorsione da cui sia derivata la morte del sequestrato.
La corte, nelle sue motivazioni, ha precisato un dato tanto empirico quanto pregnante: “Dilazionando invece sino al termine di ventisei anni (riducibile a circa ventun anni ai soli fini della liberazione condizionale, con tutte le difficoltà pratiche appena evidenziate che potrebbero ostare in concreto a una sua concessione in assenza di previe esperienze di uscite temporanee dal carcere) la possibilità di accedere a qualsiasi beneficio penitenziario, compresi i permessi premio, è assai probabile che il condannato all’ergastolo per i due titoli di reato che vengono qui in considerazione possa non avvertire, quanto meno in tutta la prima fase di esecuzione della pena, alcun pratico incentivo ad impegnarsi nel programma rieducativo, in assenza di una qualsiasi tangibile ricompensa in termini di anticipazione dei benefici che non sia proiettata in un futuro ultraventennale, percepito come lontanissimo nell’esperienza comune di ogni individuo (sentenza n. 276 del 1990). In tal modo, la disciplina ora all’esame di questa Corte finisce per frustrare la finalità essenziale della liberazione anticipata, la quale costituisce però un tassello essenziale del vigente ordinamento penitenziario (sentenza n. 186 del 1995) e della filosofia della risocializzazione che ne sta alla base; filosofia che, a sua volta, costituisce diretta attuazione del precetto costituzionale di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. Tant’è vero che questa Corte ebbe in passato ad affermare l’incostituzionalità dell’esclusione della liberazione anticipata per i condannati all’ergastolo, proprio perché tale meccanismo, fondato sulla verifica in concreto della partecipazione del condannato durante l’intero arco dell’esecuzione della pena, deve ritenersi essenziale perché la pena possa, anche rispetto agli autori dei reati più gravi, esplicare in concreto la propria (costituzionalmente necessaria) funzione rieducativa (sentenza n. 204 del 1974). Proprio in attuazione di tale principio, del resto, lo stesso art. 4-bis ordin. penit., nella versione in vigore dal 1992, esclude dalle preclusioni ai benefici, stabilite per particolari categorie di condannati, proprio la liberazione anticipata: la quale è, così, fatta salva per qualsiasi condannato, onde assicurare sempre – persino nei confronti dei detenuti che ancora non abbiano spezzato i propri legami con le associazioni criminali di appartenenza – un adeguato incentivo alla loro partecipazione all’opera rieducativa, cui l’intero trattamento penitenziario deve in ultima analisi essere orientato (sentenza n. 274 del 1983) “.
Ancora, la Corte ha rilevato un ulteriore profilo di irragionevolezza della norma penitenziaria laddove prevedeva l’automatismo dell’esclusione dei benefici penitenziari per quella particolare “categoria” di ergastolani, senza possibilità di una attenta valutazione caso per caso.
Alla luce di queste considerazioni, fondate sulla constatazione dei più recenti orientamenti cui è approdata la Corte Costituzionale, resta da vedere quanto a lungo rimarrà in vigore la novella recata dal ddl AS 925: invero, essa pare destinata – come tutte le leggi promulgate sull’onda delle spinte populiste e giustizialiste ed “elettoralmente orientate”, come il “pacchetto sicurezza” del 2008, dichiarato incostituzionale con la decisione Corte Cost. 249/10 nella parte in cui prevedeva il delitto di clandestinità – ad essere annullata alla prima occasione utile.