Il concetto di “prova” visto da chi sta in carcere: prospettive processuali

Gli accessi del gruppo/progetto “Ditelo alla Camera Penale” presso il carcere di San Vittore, insegnano agli avvocati volontari che spesso i detenuti – sia cautelari che definitivi – non hanno piena consapevolezza di quali siano i principi che regolano la valutazione delle prove nel processo penale.

Senza addentrarsi nella problematica della relazione che sussiste fra avvocato (specie se “d’ufficio”) e detenuto, nel senso che spesso i detenuti lamentano una scarsa attenzione alla loro situazione da part dei difensori (è anche vero che non è ipotizzabile che un avvocato faccia sempre “la lezioncina di procedura penale” al proprio assistito, se non in maniera sommaria e per quanto strettamente attinente alla situazione del caso concreto) occorre certamente una riflessione sul grado di comprensione della propria posizione lato sensu processuale da parte dei ristretti – sia quanto a compendio indiziario a loro carico, sia quanto a criteri e/o  motivi di scelta del rito – e sulla irrilevanza che paiono attribuire ai “principi generali del processo”, quando questi non tornano loro concretamente ed immediatamente “utili”.

Tale riflessione trae origine da una sollecitazione posta da un “veterano” dei volontari di San Vittore, che così testualmente pone la questione:

Le persone che incontriamo intra moenia, immaginano spesso la propria difesa graniticamente assicurata da “prove” che sono soltanto favole autoconsolatorie. E da cui deriva magari la scelta temeraria e autolesionistica del rito ordinario…

Chiarire che cosa è una “prova” (e quale il regime delle eccezioni…) può orientare in maniera informata e razionale l’imputato verso la possibile rinuncia al contraddittorio in via anticipata (abbreviato e patteggiamento), o in via successiva (procedimento per decreto) ecc., assicurandosi ben più favorevoli risultati difensivi.

Quanto possa servire ai fini di una pubblicazione la sintetica messa a fuoco di questa materia, non saprei dire. Sulla utilità di un capitolo così strutturato di un immaginario vademecum per imputati, tanto più se cautelarmente detenuti, non avrei invece dubbi”.

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Nel sistema processuale penale vigente, frutto principalmente dell’ormai datata riforma del 1988/89 e della “legge Carotti” del 1999, il principio cardine è quello per cui “la prova si forma in dibattimento nel contraddittorio delle parti”.

Cioè, il Legislatore ha voluto impostare un sistema per cui il Pubblico Ministero, durante la fase delle indagini preliminari, “raccoglie” gli elementi di cui poi chiederà al Giudice l’ammissione durante il dibattimento – atecnicamente noto come “il processo” – ammissione che deve essere oggetto di discussione con la difesa e che deve essere poi autorizzata dal Giudice secondo i criteri dettati dall’art. 493 c.p.p.

Tale sistema – come ricordato dal Collega – è improntato ai principi costituzionali sanciti dall’art. 111, commi 4 e 5, Cost., che così dispongono:

4) Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore.

5) La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita”.

Occorre perciò una breve disamina del richiamato disposto costituzionale, e tuttavia è necessario premettere qualche “definizione”.

Va premesso che il codice di procedura penale non dà una definizione di “prova”: pertanto, essa è ciò che il giudice ritiene di volta in volta essere tale.

Tuttavia – magra consolazione – il ragionamento sviluppato dal Giudice non può – non dovrebbe – essere illogico, arbitrario, incontrollato: per questo, l’art 192, comma 1, c.p.p., dispone che “Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”, e l’art. 606, comma 1, lett. E), c.p.p., prevede uno specifico motivo di ricorso alla Corte di Cassazione quando il ricorrente intenda denunciare la “mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”.

Cioè, il sistema processuale prevede che si possa adire la Suprema Corte qualora la decisione di merito – e cioè di valutazione dei fatti e delle prove del caso concreto – appaia effettuata conto la logica, la incontrovertibilità e la linearità del ragionamento, secondo quello che – in fin dei conti e a ben vedere – è ritenuto essere il comune “buon senso”.

Ragionamento che altro non è che l’insieme dei passaggi mentali e dei collegamenti logici che il Giudice fa per trarre dalle premesse a sua disposizione – e cioè dalle “risultanze processuali” – delle conseguenze, ossia la decisione.

La prova si distingue dall’“indizio” che, invece, è un minus quam rispetto alla “prova”, cioè non prova direttamente un fatto oggetto di accertamento, ma partendo da un altro fatto noto e certo, desume l’esistenza – mediante inferenze logiche – del fatto ignoto da provare.

E va ricordato che: “L’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti”; una triade, questa, “vincolante”, come d’altra parte nel caso  di valutazione delle “presunzioni semplici” in sede di processo civile, ammesse solo – infatti – se “gravi precise e concordanti” (art. 2729 c.c.).

Sul punto, aiuta a dare una definizione di “indizio”  Cass. 9366/15, per la quale: “la prova indiziaria presuppone che da un fatto noto si possa risalire ad uno ignoto, ma è essenziale che il fatto indiziante sia certo, vale a dire è essenziale la certezza dell’indizio. Secondo l’insegnamento di questa Corte, infatti, gli indizi devono corrispondere a dati di fatto certi – e, pertanto, non consistenti in mere ipotesi, congetture o giudizi di verosimiglianza – e devono, ex art. 192, comma secondo, cod. proc. pen. essere gravi – cioè in grado di esprimere elevata probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto – precisi – cioè non equivoci – e concordanti, cioè convergenti verso l’identico risultato. Requisiti tutti che devono rivestire il carattere della concorrenza, nel senso che in mancanza anche di uno solo di essi gli indizi non possono assurgere al rango di prova idonea a fondare la responsabilità penale. Inoltre, il procedimento della loro valutazione si articola in due distinti momenti: il primo diretto ad accertare il maggiore o minore livello di gravità e di precisione di ciascuno di essi, isolatamente considerato, il secondo costituito dall’esame globale e unitario tendente a dissolverne la relativa ambiguità. Il giudice di legittimità deve verificare l’esatta applicazione dei criteri legali dettati dall’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen. e la corretta applicazione delle regole della logica nell’interpretazione dei risultati probatori (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4663 del 10/12/2013 Ud. (dep.30/01/2014) Rv. 258721)”.

Più precisamente, in tema di “qualità” del ragionamento che deve seguito dal Giudice per giudicare la rilevanza, la credibilità e la gravità di un “indizio”, si richiama Cass. 48431/13, che così ha statuito: “Secondo l’insegnamento di questa Corte, in tema di prova indiziaria, il giudice di legittimità, nell’ambito del più generale controllo sulla corretta struttura logica del ragionamento svolto da quello di merito, è tenuto ad esaminare in termini di consistenza logica la gravità, precisione e concordanza degli indizi, approfondendo il profilo della loro capacità di dimostrare con elevata probabilità il fatto ignoto oggetto di accertamento e verificando l’eventuale errata configurazione di un mero sospetto come elemento indiziario (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 19730 del 19/03/2009 Ud. (dep. 08/05/2009) Rv. 243508)”.

Va poi precisato che il concetto di “indizio” ha valenza diversa a seconda che si tratti di decidere della innocenza o della colpevolezza di un imputato – in questo senso, per “definire il giudizio” – o che invece si tratti di fare una sommaria valutazione sulla probabilità che una persona sottoposta ad indagini abbia commesso quel fatto, ai fini della applicazione delle misure cautelari.

Infatti, in questo secondo caso si usa parlare di fumus commissi delicti”, e cioè di “odore di probabile colpevolezza” (dal letterale richiamo al “fumo”), che può giustificare una qualche restrizione della libertà personale prima del giudizio vero e proprio, a tutela degli interessi collettivi alla “neutralizzazione di una possibile minaccia”, (evitare che un probabile assassino/stupratore/rapinatore/spacciatore resti in libertà in attesa dei tempi della giustizia)  e che deve necessariamente caratterizzarsi per una minore “rigidità probatoria”, potendosi accontentare – appunto – di elementi indiziari anche se questi non riescono tuttavia ad assurgere a  dignità di “prova”.

Sul punto, chiaro è l’insegnamento di Cass. 18482/13: “il concetto di indizio contemplato nel primo comma dell’art. 273 cod. proc. pen. si distacca dalla definizione della prova indiziaria da ancorarsi ai requisiti di cui al secondo comma dell’art. 192 cod. proc. pen.; deve però necessariamente avere il crisma della gravità, che si individua in direzione dell’indagato come consistente probabilità di colpevolezza. Per altro verso i gravi indizi cui fa riferimento il citato art. 273 cod. proc. pen. possono essere desunti anche da circostanze che, esaminate singolarmente, possono apparire non univoche nel loro significato, ma, valutate globalmente in un’unica costellazione, induttivamente conducono ad un solido substrato legittimante la misura coercitiva (V. Sez. 1 sentenza n. 4430 del 25.10.1993, Rv. 196499). Si ha consistente probabilità di colpevolezza, quando gli elementi raccolti, valutati complessivamente, abbiano un’apprezzabile capacità dimostrativa del fatto in contestazione”.

Assai pregante è poi la “testimonianza”  del Pubblico Ministero dott. Piero Tony, tratta dal suo testo intitolato “Io non posso tacere” (Einaudi 2015) il quale, rievocando il caso Pacciani in cui l’autore rappresentava l’accusa in appello, si legge: “In udienza dissi che i fatti da cui inferire non erano certi ma incerti e dunque per giurisprudenza costante non potevano costituire indizi ma solo principi di indizi e pertanto «che la somma di mezzo indizio più mezzo indizio non fa uno ma fa zero, per la stessa ragione per la quale mezzo gatto morto più mezzo gatto morto non fa un gatto vivo»… Il pm, anche quando rappresenta l’accusa, in base a quel tanto nominato art. 358 c.p.p., difende la legalità, non le idee della procura… Poco tempo dopo, su mia richiesta subordinata, Pacciani fu assolto”.

E – si aggiunge – ad avercene di Pubblici Ministeri così intellettualmente onesti!

Così come, sempre in tema di testimonianza e di “giusto processo”, non può non richiamarsi il prezioso insegnamento del Manzoni, nel suo romanzo storico “Storia della colonna infame” (Mondadori, 2005): “E non c’eran più nemmen pretesti, né motivo di ricominciare: quella che avevan presa per una scorciatoia, gli aveva condotti fuori di starda”.

Ed ancora: “Il Pizza che aveva sempre detto di non aver ricevuto danari, interrogato di nuovo, disse subito di sì. (Il lettore si rammenterà, forse meglio de’ giudici, che, quando visitaron la casa di costui, danari gliene trovaron meno che al Mora, cioè punto).

Fa piacere il sentir l’innocenza sdegnata parlare un tal linguaggio; ma fa orrore il rammentarsi l’innocenza, davanti a quegli uomini stessi, spaventata, confusa, disperata, bugiarda, calunniatice; l’innocenza imperterrita, costante, veridica, e condannata ugualmente

Insomma, spesso inseguire ostinatamente una ritenuta “verità”, che sia indifferentemente la “propria” verità oppure quella “vera”, quella “storia”, non conduce ad altro che ad un catastrofico “schianto processuale”, e cioè alla condanna, o ad una condanna peggiore di quel che si sarebbe potuta conseguire altrimenti.

E questo perché – come si diceva – sovente il processo presenta una serie di imprevisti, di inaspettate complicazioni, che portano ad ottenere da alcune premesse, delle conseguenze in sfavorevole antitesi con quelle stesse premesse.

Cioè, un testimone indicato convintamente come favorevole alla difesa, all’atto pratico magari non solo non conferma la tesi difensiva (con i tanto frequenti “non so, non ricordo”, “ma veramente…”) ma addirittura di smentirla, confermando la tesi accusatoria ed aggravando così irrimediabilmente la posizione dell’imputato.

Cioè, la via del dibattimento è sempre irta ed insidiosa, e ciò nonostante va tentata, qualora le circostanze del caso concreto, opportunamente soppesati e ponderati i possibili rischi e le possibili conseguenze, lo consiglino, e l’imputato ne accetti coscientemente il rischio.

Va infatti evidenziato che una breve ordinanza della Corte Costituzionale ha aperto un ventaglio di problemi giuridicamente ed epistemologicamente rilevanti, centrati sull’art. 192 comma 2 c.p.p.

Il riferimento è all’Ord. n. 302/2001 (Relatore Guido Neppi Modona, pres. Cesare Ruperto): in quell’occasione, il Giudice remittente aveva prospettato l’incostituzionalità dell’art. 192, comma 2, c.p.p., così argomentando: “la prova indiziaria, formalmente introdotta solo nel vigente codice di rito – essendo nel sistema del precedente codice un prodotto di elaborazione giurisprudenziale -, é epistemologicamente inappagante, posto che, alla stregua degli approdi cui é pervenuta la filosofia della scienza in materia, l’esistenza di un fatto non potrebbe mai essere desunta da indizi, quand’anche “gravi, precisi e concordanti”, essendo invece a tal fine necessario procedere “non solo alla verifica dei dati ma alla loro rigorosa falsificazione, in prova e controprova attraverso la processazione di ulteriori dati che potrebbero scalfire l’ipotesi base”, così da realizzare un sistema di accertamento giudiziale basato unicamente ‘su prove (non indizi), sicure e fortissime’, e, soprattutto, su ‘prove scientifiche’; …la norma impugnata sarebbe in contrasto con l’art. 111 [primo comma] della Costituzione, nella nuova formulazione recata dalla recente legge costituzionale, che, affermando il principio del giusto processo nell’attuazione della giurisdizione, implica non solo l’esigenza della parità tra le parti ma anche l’adozione di un criterio di rigorosa valutazione delle prove a carico degli imputati: ‘ad evitare ogni forma di alea che comprometta la parità dei cittadini imputati di fronte alla legge, avendo tutti il diritto di avere il processo per prove forti, che portino davanti a qualunque giudice al medesimo risultato, e non per indizi’; …a tale conclusione dovrebbe pervenirsi anche sulla base dell’ulteriore disposizione [secondo comma] del medesimo art. 111, che impone lo svolgimento del processo nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale, atteso che la imparzialità e terzietà del giudice é assicurata solo da un ‘sistema probatorio scientifico […] che salvaguardi i processi da pure ricostruzioni logiche (indiziarie e congetturali)’… inoltre, il processo indiziario, non garantendo la ‘certezza del diritto e della prova’, non assicurerebbe nemmeno l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, con conseguente lesione dell’art. 3 Cost., dato che la garanzia dell’eguaglianza ‘nasce proprio dal rigore del metodo epistemologico’… potendo la prova indiziaria ‘compromettere ingiustamente la libertà” dei sottoposti al processo per effetto di carcerazioni preventive anche lunghe, sarebbe ravvisabile, a parere del rimettente, anche la lesione degli artt. 2 e 13 Cost.”.

La Consulta rigettò tale richiesta di declaratoria di incostituzionalità, assumendo che: “l’art. 192, comma 2, cod. proc. pen. il legislatore del 1988 ha solo inteso porre dei limiti al discrezionale apprezzamento dei dati indiziari, introducendo un parametro legale di valutazione probatoria analogo a quello recato dall’art. 2729 del codice civile… l’accoglimento della questione, risolvendosi nella soppressione di tale regola limitativa, produrrebbe un risultato antitetico a quello perseguito dal giudice a quo, in contraddizione con le sue premesse argomentative”.

Pertanto, legittimamente possono essere posti a fondamento di una sentenza di condanna non delle “prove”, ma degli “indizi”, purché essi siano anzitutto almeno due (dato che la norma li indica sempre al plurale) e siano caratterizzati da “gravità”, “precisione” e “concordanza” (ma secondo quali criteri? Quando più indizi sono “gravi”? Cosa si intende per “gravi”? Chi stabilisce come e quando siano “precisi”? Hanno forse un “mirino” integrato? E la concordanza come si giudica? Rispetto a che cosa? Agli indizi fra di loro, ed è quindi richiesta una concordanza “intrinseca”, o rispetto all’umore del Giudice il giorno in cui deve giudicare? Problemi che non potrebbero mai essere risolti, se non con la conseguenza che – in pratica – non verrebbe mai condannato nessuno: e anche ciò va contro gli interessi costituzionali dei singoli cittadini e dell’ordine pubblico).

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La Costituzione prevede anzitutto che la prova si formi nel dibattimento, ovvero nel contraddittorio tra le parti.

Infatti, nel processo penale vige il principio della disponibilità della prova, ovvero la regola secondo cui le prove sono richieste dalle parti – Pubblico Ministero e Difesa – che hanno peraltro dei precisi termini da rispettare, pena l’esclusione delle prove tardivamente richieste.

Tuttavia, il sistema processuale italiano prevede delle “scorciatoie”, che offrono all’imputato una scelta: esso offre infatti uno sconto di pena, in “cambio” della rinuncia ad attendere il giudizio in dibattimento.

Cioè, il sistema dice all’imputato: “Se tu ti accontenti che il Giudice decida sulla base degli elementi raccolti durante le indagini preliminari, io ti riduco la pena in una misura che può arrivare fino ad 1/3”.

Ciò, evidentemente, in virtù del fatto che il sistema giudiziario “arriva prima” a sentenza, risparmiando risorse economiche – per lo Stato – ed “emotive” – per la collettività, saziata più rapidamente della sua sete di “giustizia” (o di vendetta?).

Tali “scorciatoie” sono il rito abbreviato ed il c.d. “patteggiamento” (nessuno la chiama mai “applicazione della pena su accordo delle parti”, come vorrebbe l’art. 444 c.p.p.).

Premesso che l’abbreviato garantisce uno sconto di pena senza sapere prima “da quanto si parte, mentre il patteggiamento offre uno sconto di pena che va da 2 giorno ad /3 della pena (quindi anche meno di 1/3) ma concordando prima con il PM di che numeri si parla, occorre ora capire che cosa si intende “allo stato degli atti” e in che cosa questi riti si differenziano dal dibattimento “a pienezza di prova”.

Anzitutto, la difesa nel corso delle indagini preliminari può effettuare le c.d. “indagini difensive”, ai sensi degli artt. 372-bis e 391-bis c.p.p.

Data la possibilità per la difesa di depositare presso il Giudice per le Indagini Preliminari il “fascicolo del difensore”, e cioè il risultato materiale di queste indagini difensive, ciò consente di avere un sistema nel quale il Giudice dell’udienza preliminare – chiamato a pronunciarsi sulla colpevolezza dell’imputato in caso di scelta del rito abbreviato o del patteggiamento – non basi la propria decisione solamente sulle risultanze offerte dal PM e dalla polizia da questi delegata, bensì anche sugli elementi raccolti in quella fase dalla difesa dell’imputato.

Sulla rilevanza ed utilizzabilità degli elementi raccolti dalla difesa nel corso delle indagini preliminari, chiarissima è da decisione Cass. 58411/18: “I risultati delle investigazioni difensive sono utilizzabili per la decisione nel giudizio abbreviato a condizione che i relativi atti siano stati depositati nel fascicolo del Pubblico ministero prima dell’ammissione al rito speciale; ne consegue che tali atti possono essere prodotti anche nel corso dell’udienza preliminare e sino alla scadenza del termine per la richiesta del rito abbreviato, ex art. 438 cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 9198 del 16/02/2017, Rv. 269344); in ogni caso, sono utilizzabili per la decisione, salvo restando il diritto delle controparti di esercitare il contraddittorio sulle prove prima non conosciute (Sez. 3, n. 15236 del 11/02/2009, Rv. 2433829; Sez. 6, n. 31683 del 31/03/2008, Rv. 240779)”.

Ciò consente di avere un sistema più “equilibrato e ad armi pari” – anche se più “sulla carta” che non nella realtà dei processi – ed offre all’imputato la possibilità di affrontare meno “alla cieca” la scelta tra rito ordinario e rito alternativo.

Va precisato dunque che il deposito del “fascicolo del difensore”, anche ai fini dell’eventuale scelta di un rito alternativo, non costituisce “condizionamento” dello stesso rito all’acquisizione del fascicolo della difesa al fascicolo del GUP.

Anzitutto, infatti, è lo stesso art. 438 c.p.p. – norma che disciplina i presupposti per il giudizio abbreviato, a sancire testualmente nel suo comma 4 che: “Sulla richiesta il giudice provvede con ordinanza con la quale dispone il giudizio abbreviato. Quando l’imputato chiede il giudizio abbreviato immediatamente dopo il deposito dei risultati delle indagini difensive, il giudice provvede solo dopo che sia decorso il termine non superiore a sessanta giorni, eventualmente richiesto dal pubblico ministero, per lo svolgimento di indagini suppletive limitatamente ai temi introdotti dalla difesa. In tal caso, l’imputato ha facoltà di revocare la richiesta”.

Da ciò si deduce che l’imputato può contestualmente, in sede di udienza preliminare, depositare il fascicolo delle indagini svolte a propria difesa  e contemporaneamente richiedere l’ammissione al rito abbreviato.

Inoltre, la disciplina del “condizionamento” del rito è dettata dal successivo comma 5 dell’ar.t 438 c.p.p., che così dispone: “L’imputato, ferma restando la utilizzabilità ai fini della prova degli atti indicati nell’articolo 442, comma 1-bis, può subordinare la richiesta ad una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione. Il giudice dispone il giudizio abbreviato se l’integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili. In tal caso il pubblico ministero può chiedere l’ammissione di prova contraria. Resta salva l’applicabilità dell’articolo 423”.

Peraltro, la decisione sulla ammissibilità delle prove cui l’abbreviato è condizionato, può essere oggetto di impugnazione nel caso in cui essa sia negativa, con conseguente disposizione del rito ordinario.

La decisione della Suprema Corte Cass. 57948/18 è molto chiara nel fare il punto sulla disciplina dell’impugnativa de qua: “In linea generale, l’ordinamento processuale delineato a seguito della pronuncia n. 169/2003 della Corte Costituzionale e degli ulteriori interventi delle Sezioni Unite della Corte di cassazione ( sentenza n. 44711/2004, Wajib) e della Corte Costituzionale ( sentenza n. 433/2006) – onera la parte, la cui tempestiva richiesta di rito abbreviato condizionato ad integrazione istruttoria sia stata respinta dal giudice dell’udienza preliminare, di rinnovare l’istanza prima dell’apertura del dibattimento di primo grado e, in caso di nuovo diniego ritenuto illegittimo, di impugnare l’ingiustificato (per la illegittimità del rigetto della istanza di rito abbreviato condizionato) diniego della diminuzione di pena di cui all’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. Tale disciplina, per quanto riguarda il sindacato sulla decisione di rigetto della richiesta di rito abbreviato condizionato a integrazione probatoria, richiede che la 14 Corte di Cassazione – copia non ufficiale parte abbia riproposto, al giudice del dibattimento, la medesima istanza oggetto del precedente rigetto ( Sez. 1, 27.4.2011, Carlino, Rv. 250232; Sez. 2, 28.9.2011, Saccoia, Rv. 251762; Sez. 1, 19.4.2006, Lombardi, Rv. 234964) e definisce il merito del controllo in relazione ai criteri della necessità della prova richiesta ai fini della decisione e della compatibilità della prova con le finalità di economia processuale proprie del rito richiesto”.

E la stessa Suprema Corte, con la decisione n. 57777/18,  precisa tuttavia che la mancata assunzione della prova richiesta a condizionamento dell’abbreviato, non costituisce quella “mancanza di assunzione di una prova decisiva” censurabile con ricorso in Cassazione ex art. 606, comma 1, lett. D), c.p.p.: “Il collegio ribadisce che la mancata assunzione di una prova decisiva, quale motivo di impugnazione per Cassazione, previsto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione, anche nel corso dell’istruzione dibattimentale, a norma dell’art. 495 cod.proc.pen., comma 2, (cfr. Cass., sez. 2, 18/12/2012, n. 841), sicché il suddetto motivo non può essere validamente invocato nel caso di giudizio abbreviato non condizionato ad integrazione probatoria, come nel caso in esame (Cass. sez. 5, n. 27985 del 05/02/2013, Rv. 255566) la mera sollecitazione probatoria non è idonea a far sorgere in capo all’istante quel diritto alla prova, al cui esercizio ha rinunciato formulando la richiesta di rito alternativo non condizionato. Ne consegue che il mancato accoglimento di tale richiesta non può costituire vizio censurabile ex art. 606, comma primo, lett. d) cod. proc. pen. (Cass. sez. 5, n. 5931 del 07/12/2005 dep. 2006, Rv. 233845)”.

Occorre poi evidenziare che il nuovo comma 5-bis dell’art. 438 c.p.p., inserito con la c.d. “riforma Orlando”, espressamente prevede che: “Con la richiesta presentata ai sensi del comma 5 può essere proposta, subordinatamente al suo rigetto, la richiesta di cui al comma 1, oppure quella di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444”.

Cioè, l’imputato – sempre dopo aver tempestivamente depositato le indagini difensive eventualmente svolte – può chiedere l’ammissione al giudizio abbreviato condizionato e, in subordine nel caso in cui tale richiesta sia rigettata, essere comunque ammessi ai riti alternativi dell’abbreviato “semplice” o del “patteggiamento”.

Tutto questo per arrivare a dire – rispondendo all’iniziale “sollecitazione” – che la persona che deve affrontare un giudizio, e dunque la scelta fra rito ordinario e rito alternativo, deve avere ben chiari alcuni concetti basilari della procedura penale, e deve anche rendersi conto di quel che può pensare “mediamente” il Giudice che se lo troverà di fronte – e che deciderà del suo futuro.

Nel dibattimento, infatti, potrebbe in ipotesi anche non confluire nessuno degli elementi raccolti durante le indagini preliminari: infatti, se le parti non prestano consenso alla acquisizione degli atti di indagine, tutte le persone che hanno svolto le indagini, che hanno reso sommarie informazioni testimoniali. Che hanno effettuato rilievi tecnici e perizie, dovranno essere sentiti nuovamente da capo nel (famoso) “contraddittorio delle parti”, e cioè renderanno dichiarazioni sulla base delle domande e contro-domande di accusa e difesa.

Invece, nei riti “scorciatoia” le dichiarazioni acquisite durante le indagini preliminari – dalla accusa e dalla difesa, si ribadisce – verranno utilizzate per “formare il convincimento del Giudice” – e cioè, per decidere – senza che i dichiarati siano nuovamente sentiti.

Ai fini di una tale scelta, va anche detto chiaramente che in ogni processo (civile, penale, etc.) vale il pragmatico principio secondo cui un testimone è tale solo dopo che ha testimoniato – per quel che si è ricordato supra. Cioè, capita spesso che gli imputati siano convinti che sia meglio affrontare il dibattimento perché hanno “testimoni sicuri”, persone che “sicuramente” verranno a testimoniare per confermare la loro versione e quindi la loro innocenza, ma alla resa dei fatti quelle persone “spariscono” o rendono dichiarazioni contrarie a quel che ci si aspettava, compromettendo definitivamente la difesa e quindi la sentenza.

Pertanto, prima di affrontare un giudizio dibattimentale sarebbe più che opportuno “incamerare” le dichiarazioni di possibili testi mediante lo svolgimento di indagini difensive.

Infatti, qualora il possibile testimone renda dichiarazioni favorevoli all’imputato, questo e potrò depositare al GIP, che le utilizzerà per la decisione in caso di rito alternativo; oppure potrà usarle per contestare al dichiarante eventuali dichiarazioni diverse e sfavorevoli rese in dibattimento, anche al fine di minarne la credibilità (delle dichiarazioni negative fatte al dibattimento, le uniche che il Giudice verrebbe altrimenti a conoscere).

Qualora invece fossero negative, ciò potrebbe “scoraggiare” l’imputato dall’avventurarsi in un rito ordinario, preferendo un “sano” sconto di pena a fronte della rinuncia alla opzione dibattimentale.