Con la sentenza n. 41736/19, depositata il 10/10/2019, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno adottato una decisione che ha già suscitato un aspro dibattito su una problematica che si pone frequentemente nella prassi delle aule di giustizia, e cioè il mutamento del Giudice-persona fisica nel corso del dibattimento.
In particolare, si è pronunciata esprimendo i tre seguenti principii di diritto, al punto 11 della motivazione:
- «il principio d’immutabilità del giudice, previsto dall’art. 525, comma 2, prima parte, cod. proc. pen., impone che il giudice che provvede alla deliberazione della sentenza sia non solo lo stesso giudice davanti al quale la prova è assunta, ma anche quello che ha disposto l’ammissione della prova, fermo restando che i provvedimenti sull’ammissione della prova emessi dal giudice diversamente composto devono intendersi confermati, se non espressamente modificati o revocati»;
- «l’avvenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere, ai sensi degli artt. 468 e 493 cod. proc. pen., sia prove nuove sia la rinnovazione di quelle assunte dal giudice diversamente composto, in quest’ultimo caso indicando specificamente le ragioni che impongano tale rinnovazione, ferma restando la valutazione del giudice, ai sensi degli artt. 190 e 495 cod. proc. pen., anche sulla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa»;
- «il consenso delle parti alla lettura ex art. 511, comma 2, cod. proc. pen. degli atti assunti dal collegio in diversa composizione, a seguito della rinnovazione del dibattimento, non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non chiesta, non ammessa o non più possibile».
Il primo principio è senz’altro condivisibile e conferma un orientamento della Suprema Corte – sconfessandone uno opposto – e stabilisce che “il giudice che delibera al sentenza” deve essere lo stesso che ha ammesso le prove richieste dalle parti e che ha poi assunto personalmente quelle stesse prove.
Ma l’inciso per cui: “che i provvedimenti sull’ammissione della prova emessi dal giudice diversamente composto devono intendersi confermati, se non espressamente modificati o revocati” è già una “spia” di dove la Corte vuole andare a parare.
Il terzo punto è pure condivisibile e discende logicamente dal primo: cioè, in sostanza, se le parti non richiedono espressamente la rinnovazione di un atto istruttorio, sono implicitamente – e consequenzialmente – consentite le mere letture dei verbali di assunzione di quelle prove, la cui rinnovazione non è stata richiesta.
È tuttavia il secondo principio enunciato dalle Sezioni unite che lascia perplessi molti giuristi, ed in particolare gli avvocati difensori: infatti, pur riconoscendo che il fatto del cambiamento del Giudice-persona fisica attribuisce alle parti il diritto di chiedere che sia assunta nuovamente una determinata prova dal nuovo Giudice succeduto, la Suprema Corte ha specificato che la parte richiedente deve indicare le “specifiche ragioni” che “impongono” (sic!) tale rinnovazione.
Non solo: il Giudice ha in ogni caso ampio margine per negare la rinnovazione richiesta, quando ritenga che essa sia “manifestamente superflua”.
In questo secondo principio enunciato nientemeno che dalle Sezioni Unite sta il motivo di tanta asperità delle critiche mosse: la Corte ha di fatto introdotto due requisiti non richiesti dalla norma positiva (l’art. 525 c.p.p.) e cioè:
- l’indicazione delle ragioni che “impongono” (addirittura!) la rinnovazione;
- la valutazione di non manifesta superfluità della stessa.
Facile prevedere che, per asserite ragioni di “economia processuale” e di ragionevolezza della durata del processo, nonché per i consueti rilievi della insufficienza dell’organico di Giudicanti e di Cancellieri, si è spianata la strada alla sistematica declaratoria di non necessità e/o superfluità della rinnovazione istruttoria.
Eppure, tale possibilità – come riconoscono le stesse Sezioni Unite – discende ipso jure dal fatto che il Giudice che deve adottare la decisione sulla colpevolezza di un imputato non sia più lo stesso Giudice che ha assunto le prove a suo carico e/o a sua discolpa: “l’avvenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere, ai sensi degli artt. 468 e 493 cod. proc. pen., sia prove nuove sia la rinnovazione di quelle assunte dal giudice diversamente composto”.
Le ragioni con cui la Suprema Corte “giustifica” tale decisione, sono affidate ad un capoverso contenuto a pag. 20 della sentenza in commento: “Orbene, se il legislatore ha espressamente attribuito al giudice il potere discrezionale di non ammettere (in caso di manifesta superfluità) le istanze probatorie volte ad ottenere la pedissequa reiterazione degli esami di soggetti dei quali siano stati acquisiti verbali di dichiarazioni rese in procedimenti diversi (e quindi anche dinanzi a giudici diversi, purché in presenza del difensore dell’imputato), non si riuscirebbe francamente a comprendere la ragione per la quale dovrebbe essere preclusa al giudice la possibilità di operare analoga valutazione di non manifesta superfluità ai fini dell’ammissione della richiesta di reiterazione di esami già svolti in dibattimento nell’ambito del medesimo processo, nel contraddittorio fra tutte le parti interessate, regolarmente costituite e rappresentate, dinanzi allo stesso giudice (inteso come autorità giudiziaria competente), pur diversamente composto”.
Ma un’obiezione si leva spontanea: se il Legislatore ha previsto all’art. 195 c.p.p. che le prove richieste debbano essere rilevanti e non superflue, e non ha inserito invece analoga previsione (di rilevanza e non superfluità) per la richiesta di rinnovazione istruttoria ex art. 525 c.p.p., ciò significa che il Giudice non ha nessun potere, in questo caso, di sindacare la richiesta di rinnovazione istruttoria avanzata da una delle parti.
Invero, il rischio è quello di andare anche per il primo grado di giudizio – come ormai è prassi per tutti i gradi di impugnazione – verso un “processo cartolare”, e cioè basato sulla mera lettura delle carte processuali, in spregio al necessario principio di oralità ed immediatezza dell’istruzione dibattimentale.
Oralità ed immediatezza che non sono meri orpelli cui gli Avvocati si appigliano per giustificare le proprie parcelle o per arrivare prima alla prescrizione, ma che sono invece gli unici strumenti per addivenire ad una decisione che sia il più giusta possibile.
Si pensi alle deposizioni rese in processi connotati dalla forte carica emotiva dei dichiaranti (violenze sessuali, violenze famigliari) nei quali il Giudice deve necessariamente formare il proprio convincimento non sulla base della mera lettura di dichiarazioni asettiche perché imprigionate in un foglio di carta, ma deve invece valutare la genuinità e la portata delle dichiarazioni anche dalla loro caratterizzazione para-verbale, che possono aiutare a dedurre lo stato d’animo del dichiarante (e, quindi, le motivazioni sottese alla propria deposizione: verità dei fatti narrati? Vendetta? Invidia?).
Si ricorda che la rivoluzione del codice di rito del 1989 sta proprio nell’aver previsto la necessità della formazione della prova nel contraddittorio delle parti: è per questo che si sentono in dibattimento le Forze dell’Ordine, mentre nel sistema previgente se ne acquisivano sic et simpliciter i verbali, “dandoli per buoni” sol per via della loro fonte.
Ma risiede in questa decisione della Cassazione a Sezioni unite anche un grave ed ormai non più latente pericolo: quello cioè che il Giudice, anziché “essere soggetto soltanto alla legge” come solennemente prescritto dall’art. 101 Cost., si faccia egli stesso Legislatore, in spregio ad ogni e qualsiasi principio di separazione dei poteri, di riserva di legge, di democrazia.
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